“Pa’am Achat: “Una volta“. Così, il più delle volte, cominciano le fiabe ebraiche. La formula è usuale, persino scontata. Se non che né prima né dopo quell'”una volta” c’è modo di trovare il verbo, un qualsivoglia attestato di esistenza nel tempo, perché al lettore, o a chi ascolta la parola viva nella voce di chi narra, non è dato mai di sapere e nemmeno di poter congetturare se quell'”una volta” ci fosse o non ci fosse.
Da quelle due parole in poi, la fiaba ebraica si dipana sospesa in un tempo che non è dato immaginare, libera dei confini d’ogni concepibile realtà, dove si nutre ogni illusione fuorché quella di collocare la storia in qualche “dove” o “quando”.
Pa’am Achat: “Una volta”. Pa’m è il suono che ricorre, il battito del cuore. Quasi a dire che quella “volta” può ripetersi all’infinito, oggi, ieri e domani, ma in casuale sequenza. E magari dentro luoghi che pure portano nomi concreti, come Gerusalemme a Costantinopoli… Ma la geografia è anch’essa pura finzione nella fiaba, architettura di spazi irreali.
… Utopia delle utopie, tema ricorrente e ammiccante è quella irraggiungibile padronanza di tutte e settanta le lingue del mondo, che comprendono anche gli idiomi parlati nel regno animale. Più in generale, la sapienza è la meta ambita di tanti viaggi e peripezie: l’ideale di queste fiabe è la conoscenza, non il possesso.”
di Elena Loewenthal dalla prefazione di “Fiabe ebraiche”, Einaudi
Getta il tuo pane sull’acqua
C’era una volta un uomo molto pio. Prima di morire, quest’uomo impose al figlio di giurare che avrebbe sempre seguito l’esempio del padre e non avrebbe mai fatto mancare l’elemosina ai poveri.
– La parola dell’Eterno, – spiegò il vecchio già sul punto di lasciare questo mondo, – ci dice: Getta il tuo pane sull’acqua, perché dopo molto tempo tu lo ritroverai. Serba questo insegnamento, figlio mio, e non te ne pentirai né nulla mai ti mancherà.
Poco dopo aver pronunciato queste parole, l’uomo spirò.
Il figlio mantenne la promessa.
Dopo la morte del padre, il giovane ogni mattina andava sulla riva e gettava nel mare una pagnotta di pane. Ogni giorno un pesce la mangiava. Passò del tempo.
Molto tempo.
E quel pesce che mangiava il pane divenne così grosso che gli altri andarono a lamentarsene con il loro re, nientemeno che il Leviatano.
– Quel pesce è diventato così grosso che in un sol boccone divora venti di noi! – esclamarono. – Non possiamo più vivere, con lui nei paraggi!
Leviatano allora mandò a chiamare quel colosso, e gli domandò:
– I tuoi fratelli e le tue sorelle che vivono negli abissi sono grossi non più della metà di te, mentre tu che vivi appena sotto il pelo dell’acqua sei così pasciuto. Me ne spieghi la ragione?
– C’è un uomo che scende ogni giorno sulla riva e mi dà da mangiare, – spiegò candidamente il pescione. – Arriva tutte le mattine, getta il suo pane sull’acqua, e io lo acchiappo al volo.
– Portami subito quell’uomo! – intimò con il suo barrito il Leviatano.
L’indomani di buon mattino il pesce scavò un fosso sotto la sabbia, nel punto in cui quell’uomo si recava ogni mattina a gettargli il pane, e si mise con le fauci aperte all’imboccatura. L’uomo arrivò, precipitò nel buco e venne tosto inghiottito dal pescione, che in men che non si dica lo condusse da Leviatano.
– Ora sputalo fuori! – ordinò il re di tutti i mari.
Il pescione tossicchiò, scaraventando sul fondo dell’abisso il malcapitato.
– Perché getti ogni mattina il tuo pane sull’acqua? – domandò Leviatano.
– Perché mio padre prima di morire mi ha insegnato a fare così, – rispose l’uomo.
Allora Leviatano con la sua bocca enorme gli diede un bacio e gli offrì un regalo. L’uomo poteva scegliere fra la metà dei tesori di tutti gli abissi e la perfetta conoscenza di tutte e settanta le lingue del mondo. L’uomo scelse saggiamente il secondo dono, Leviatano lo istruì e in men che non si dica le padroneggiava tutte e settanta.
Poi il re dei mari lo portò presso una riva remota e qui, sulla sabbia calda, lo abbandonò. L’uomo si crogiolò un po’ sotto il sole, finché non vide due corvi che volavano sopra di lui. Uno diceva:
– Padre, vedo un uomo disteso laggiù. Sarà vivo o sarà morto?
– Non saprei, figlio mio, – rispose l’altro.
– Ora scendo e lo becco sugli occhi, che sono la cosa che mi piace di più, – disse il giovane corvo.
– Non farlo! – lo mise in guardia il padre, – perché se fosse vivo ti catturerebbe e ti ucciderebbe.
L’uomo, che ormai conosceva tutte e settanta le lingue del mondo, comprese quelle degli animali, capì quello che s’erano detti i due corvi e appena il più giovane atterrò sulla sua fronte, lo prese per le zampe.
– Padre! Padre! – gridava l’uccello imprigionato, – sono perduto!
– Povero te, figlio mio! – gridava il padre dal cielo, – se solo mi avessi dato retta!
Poi scese più in basso e si rivolse all’uomo.
Oh, quanto vorrei che il Signore, sia Egli benedetto, ti desse facoltà di capire le mie parole!
Ti pregherei in tal caso: «Lascia andare mio figlio, e io in cambio ti mostrerò un tesoro favoloso! »
L’uomo liberò immediatamente il giovane corvo dalla stretta. Allora il corvo padre riconoscente gli disse:
– Scava nel punto in cui si trovano i tuoi piedi, qui troverai il tesoro di re Salomone.
L’uomo fece come gli aveva detto il corvo e trovò ceste e ceste di gemme, pietre preziose e oro zecchino. Da quel giorno in poi non fu mai più povero, non ebbe più bisogno di nulla. Ma continuò a elargire generosamente la propria elemosina ai poveri, così come aveva promesso a suo padre.
(Fiabe ebraiche)