Quando in Italia si parlava di quarta sponda si intendeva lo scatolone di sabbia della Libia. In realtà la vera sponda africana era costituita dal Maghreb ed in particolare dalla Tunisia. Da lì partivano le incursioni barbaresche che hanno infestato e impoverito la Sicilia fino al Settecento. “Mammadrau” si dice in siciliano per indicare una persona poco piacevole ricordando il pirata Dragut, capo di tante scorribande sulle coste siciliane. Spesso però dietro le redditizie incursioni sui navigli che attraversano il Canale di Sicilia c’erano finanziatori di religioni diverse: arabi e cristiani condividevano le attività di pirateria.
In un bel libro edito da Flaccovio qualche anno addietro si ricorda come i siciliani di alcune città venivano liberati dalla schiavitù in terra berbera molto prima di altri e questo nonostante la presenza di confraternite misericordiose che si preoccupavano di raccogliere i denari per il riscatto degli sventurati.
Lungo sarebbe raccontare le mille storie di incontri e scontri tra le due sponde, ma i legami tra Tunisi ed i siciliani crebbero fino a creare nell’Ottocento a La Goulette, cittadina su una delle imboccature del porto di Tunisi, una colonia di siciliani, una comunità chiamata “Petite Sicilie”. Questa comunità, molto attiva nel rivendicare i propri diritti di fronte alla progressiva francesizzazione della Tunisia nel 1881, si ritrovò attorno alla Chiesa di Sant’Agostino, all’interno della quale è conservata una copia della statua della Madonna di Trapani, amatissima dai marinai che attraversano il Mediterraneo. L’originale, che pare sia stata scolpita da Nino Pisano alla fine del Trecento, è custodita nel Santuario dell’Annunziata a Trapani insieme ai tanti ex voto, ringraziamento alla Vergine per lo scampato pericolo dalle tempeste.
E’ stata la notizia della processione del simulacro il 15 agosto della scorsa estate dopo ben 57 anni, a suggerirmi una deviazione per La Goulette in occasione di un viaggio di lavoro a Tunisi.
Trovo come primo (e unico) segnale quello di un ristorante dal nome “Petite Sicile” e, con il mio stentatissimo francese, chiedo lumi sulla sorte del borgo.
Cercando di superare le difficoltà della lingua, la signora gentilissima mi illustra delle foto dei primi del Novecento appese al muro. Purtroppo delle case dell’epoca rimane solo qualche malandato stabile dove ritrovo un’insegna bilingue di un sarto, le altre sostituite da dignitosi ma anonimi edifici molto recenti.
La gentilissima signora ci indica la Chiesa.
La porta è aperta e chiediamo il permesso di entrare ad una suora con il sari di Madre Teresa che sta facendo catechismo a delle ragazze. Ci porta a conoscere il sacerdote che accudisce in armonia con la comunità mussulmana un gregge di circa 100 fedeli. Viene dal Ciad, fisico imponente e anche lui gentilissimo, si mostra ben contento di ricevere visite anche se un po’ fuori orario e ci conduce dentro la Chiesa dove, con grande emozione, trovo una statua in legno colorato (o cartapesta?) che riproduce la Madonna di Trapani. Ha la stessa grazia dell’originale, ma mi commuove particolarmente pensare ai siciliani che si ritrovavano qui… a sole 80 miglia da Trapani.
Uscendo dalla Chiesa, sentiamo il richiamo alla preghiera del muezzin dalla moschea, non lontana più di 200 metri. E ancora una volta non capisco perché non si tolleri che si possa pregare Dio con lingue e liturgie diverse, come concordiamo con il tassista che ci porta a Tunisi. La direzione è la Medina dove ci attende un ottimo ristorante (in verità sarei rimasto volentieri dalla gentilissima signora della Petite Sicilie che mi aveva invitato…). Arrivati un po’ in anticipo, ci concediamo un giro nella casbah deserta.
Bellissima, con i portoni decorati con figure geometriche disegnate con i chiodi da provetti artigiani.
Girovagando come piace a me, mi infilo in un buco di negozietto dove un artigiano sta costruendo un tamburo. Ci accoglie ospitale ed allegro e ci racconta del festival al quale ha partecipato nel Nord Italia.
E’ il momento di entrare da Dal El Jedi, il ristorante che ci ha consigliato un collega del posto.
Non possiamo non restare colpiti dalla bellezza e dall’eleganza di questo ristorante ambientato in una casa ed arredato con maioliche e mobili di antiquariato.
Il personale parla un buon italiano e ci aiuta nella scelta. Puntiamo su tajin come entrée e cuscus con vari condimenti. Il collega francese sceglie un cuscus di pesce che è un pallido parente della tradizione trapanese, ma ha un inedito contorno di mela cotogna e ceci.
La mia scelta cade su cuscus con carne di agnello essiccata e condita con polvere di pistacchio e mandorle, peperoni e mela cotogna (molto apprezzata perché attenua il sapore forte dell’agnello).
Il tajin invece si rivela molto diverso da quanto ci aspettavamo, due formelle per ciascuno, ma risulta saporito e leggero.
Chiude il pasto un assaggio di dolci che ricordano molto quelli di mandorla con l’immancabile pistacchio e un trittico di creme in cui spicca quella dal delizioso aroma di acqua di rose.
È il momento di tornare in albergo, domani ci attende una giornata impegnativa.
È mattina del giorno dopo e dalla mia finestra, nel recinto sottostante, vedo una famiglia di dromedari. Poco più oltre c’è il mare.
A la prochain fois…
Nicolò Di Gaetano